2023 ALESSANDRO VANOLI

Interludio estivo nella Val d’Orcia

Primo movimento

Prima di arrivare alla chiesa c’è una panchina. Devi salire qualche metro, alla sinistra del sentiero, su un prato d’erba un po’ scosceso. E solo quando sei in cima ti accorgi di quell’infinito che ti si para davanti: con lo sguardo che si perde in un ondeggiare di campi verdi, ritmati dalle macchie più scure d’alberi, sino alle colline lontanissime perse nei toni azzurri dell’orizzonte.

Ti siedi e consideri un momento la situazione: è un pomeriggio tardi, di pieno luglio, e fa parecchio caldo – c’è un po’ di brezza questo sì – e l’odore dell’erba e dei fiori tutt’attorno; stai guardando verso sud-est, dunque le pietre e le torri che intravedi chissà quanti chilometri davanti a te sono quelle di Montepulciano. Insomma, se vai diritto da quella parte, poi giri a destra, verso ovest, vai in Val d’Orcia.  Partiamo da qui.

C’è una geologia innanzi tutto. Le terre da queste parti, nel mezzo della Toscana, sono antiche ma non antichissime: soltanto qualche milione d’anni fa; cose del Pliocene, quando il mare che qui copriva tutto ha cominciato a sollevarsi. E salendo verso il cielo ha portato con sé conchiglie, fossili di pesce e argille ovunque, quelle che chiamano “crete”. Una terra poco permeabile all’acqua e povera d’aria. Una terra che si spacca quando arriva il caldo e che diventa paludosa quando piove troppo. Una terra però che sui rilievi va bene per i pascoli, ma anche per la vite e per l’olivo. In più se la guardi dall’alto questa zona, magari aiutandoti con google map, lo capisci abbastanza facilmente che questa è una zona di passaggio: una serie di valli che si protendono da una parte verso l’Umbria, dall’altra verso il Lazio, collegando il tutto con il mar Tirreno. Cibo, acqua, e facili collegamenti: inutile dire che queste terre finirono per accogliere secoli, se non millenni, di civiltà diverse. Gli etruschi innanzi tutto; e poi i romani, poi nel primo medioevo un fitto andirivieni di mercanti e pellegrini, perché le grandi strade del passato erano ormai scomparse e se volevi scendere a sud, verso Viterbo, e di qui poi a Roma, era da qui che dovevi passare. Che non è strano insomma che fu allora che la Val d’Orcia e le terre attorno cominciarono a riempirsi di torri di castelli, di fortezze e monasteri.

Anche il posto dove sei seduto ora, Montefollonico, è venuto su in quel periodo: le mura ce le hai proprio a qualche metro di distanza, dietro le tue spalle. Uno dei tanti borghi cresciuti attorno al Mille e poi diventati solidi e forti a poco a poco. Uno di quei luoghi dove i turisti pensano che il tempo non sia mai passato e che la vita scorra sempre serena, tra le pietre vive delle case, i fiori che colmano i terrazzi e l’odore della legna arsa nei camini. Uno di quei luoghi che, in Toscana come altrove, ci siamo inventati in realtà in tempi recenti.

Ma adesso è l’ora del tramonto e occorre scendere. Solo qualche ripido metro in basso. Sino alla chiesetta qui accanto. La facciata bianca ornata di mattoni ai lati; meno antica di gran parte del resto di Montefollonico e si vede: una cosa dei primi anni del Seicento. Chiesa della Madonna del Triano… che mentre scendi pensi che è davvero uno strano nome; lo prenderà dalla porta medievale qui a fianco, che si chiama appunto Porta del Triano, certo… anche se poi è solo spostare il problema dell’etimologia un po’ più in là…

 

In ogni caso dentro la chiesa non è così fresco come ti aspettavi, ma ci stai comodo. La navata si riempie a poco a poco, ed è curioso come in quel piccolo angolo di Toscana risuonino quasi solo accenti inglesi. A te la mescolanza interessa da sempre: come storico trovi che la mescolanza e lo scambio spieghino quasi sempre meglio la realtà, rispetto all’immagine di un passato e di un presente statico, dove si vorrebbe la popolazione legata indissolubilmente ad un solo territorio. Così ti siedi, cullato da quel vociare un po’ cosmopolita, godendoti l’aria che adesso passa dalla porta aperta accanto a te… seduto accanto a Marcella e Margaret, Ravenna e Belfast… la mescolanza per l’appunto.

Che poi, a sfogliare il programma di sala ti vien da pensare quasi la stessa cosa: Mozart, Prokofiev, Albéniz, Asturias, Tárrega, Boccherini… che se non è mescolanza questa! In realtà sono i due poli del programma quelli che noti di più. Innanzi tutto Mozart con la sonata per violino e pianoforte, KV 454. Normalmente le sonate per violino e pianoforte di periodo neoclassico te le confondi un po’ l’una con l’altra, ma questa si lega a un fatto che ti colpì abbastanza quando lo leggesti: è dedicata ad una violinista, l’italiana Regina Strinasacchi, di cui si dicevano cose strepitose. Mozart questo concerto lo suonò per la prima volta con lei, davanti all’imperatore Giuseppe II, era il 29 aprile 1789. E lo senti sin dalle prime note: quell’equilibrio tra i due strumenti, che nelle sonate non è per nulla scontato; sin dal Largo introduttivo, con ogni frase esposta da uno strumento che subito viene ripresa dall’altro. Poi chiaro: Mozart non replica mai davvero e tutto si trasforma in melismi, contrappunti e ornamentazioni le più varie, con quegli accenni quasi operistici che introduce nell’allegretto finale. Mescolanza appunto: in fondo è proprio ai tempi di Haydn e Mozart che la musica cominciò a sperimentare veramente il dialogo tra le differenti voci dell’organico. E la senti benissimo qui quella conversazione che li strumenti e i musicisti mettono in opera. Una conversazione dove tutti sono su un piano di parità.

E Mozart vabbè, non si discute, ma in questo gioco per te è sempre stato Boccherini a fare la differenza. Forse proprio perché sei uno storico e non un musicista. Il periodo è più o meno lo stesso, la fine del Settecento, ma le suggestioni, le influenze, sono estremamente diverse. A quei tempi capitava spesso di passare l’intera vita in viaggio e Boccherini, come tanti musicisti, non fu da meno: nato a Lucca e giovane prodigio del violoncello, se ne andò in giro un po’ ovunque, tra Italia, Austria e Francia. Finì poi che si fermò in Spagna, legandosi poi all’infante don Luis. Nel 1776 lo seguì a Las Arenas de San Pedro, un paesino a sud della provincia di Avila. E si potrebbe pensare che il mondo scintillante dell’Europa dei lumi fosse ormai immensamente distante. E invece all’ombra di quel palazzo spagnolo c’erano artisti non da poco, se è vero che Boccherini è lì, elegante in una marsina rossa, immortalato per sempre da Francisco Goya, in quel suo capolavoro che celebra appunto la famiglia dell’Infante Don Luis di Borbone.

E quello che lui si inventa a corte sono dei quintetti: prende il quartetto d’archi classico, con due violini, viola e violoncello, ma ci aggiunge la chitarra. Una scelta a dir poco originale per i tempi (anzi la inventa proprio lui), ma che lì in Spagna ha un senso: non è ancora lo strumento come lo conosciamo – e arriverà nell’Ottocento – ma è già quella chitarra che esprime ormai da tempo la tradizione più profonda, quella arabo-islamica e quella gitana: scale e i ritmi di mondi lontani che in Spagna si mescolano da secoli. E Boccherini nei suoi quintetti scombina ancor più le carte: c’è la musica cameristica europea, dove gli strumenti si trovano ora ormai in dialogo, tutti sullo stesso piano di importanza, e ci sono quei suoni che vengono da lontano.

Questo, il numero 4, ti piace particolarmente. Boccherini lo ha riarrangiato così molto tardi, basandosi su due sue opere precedenti; ma non è questo che importa. c’è un Allegro maestoso con quelle melodie vivaci affidate al violoncello; c’è un secondo movimento, Pastorale dove gli archi in sordina suonano una melodia delicata e dolce, increspata delle note di chitarra; e c’è soprattutto quel fandango finale, dove il ritmo della danza spagnola si ripete continuamente mentre gli strumenti si scambiano la melodia, in un crescendo di vera festa. E tu lo capisci solo adesso guardando i musicisti mentre giocano in quel crescendo, che Boccherini ha costruito quel pezzo come fosse una vera e propria chiamata a festa per i partecipanti: ha senso, ti dici, che il violoncello cominci a ballare alzandosi in piedi, che la chitarra la viola e i due violini ridano mentre si precipitano in un finale di ritmo e di danza.

E anche tu sei lì che ridi e tieni il tempo con le mani. Come tutti attorno a te. Perché è questo, al suo meglio, il senso della musica. La mescolanza appunto.

Secondo movimento

Se non fosse estate sarebbe diverso, ti dici. È vero per tantissimi motivi. Perché mangiamo assieme brindando all’ombra degli alberi, perché camminiamo per la campagna sotto il sole, perché quando ti svegli c’è una lepre che sembra passare di lì per salutarti; e poi perché ci sono le cicale.

La Foce è un luogo affascinante per chiunque, per uno storico forse un po’ di più: perso in uno spazio da sogno, al centro steso della Val d’Orcia, ti obbliga quasi a pensare al passato. Non come banale nostalgia ma come vera stratificazione. Mondi e mondi che si sovrappongono per costruire questa meraviglia.

Quindi stai camminando all’ombra dei cipressi che punteggiano la strada, e ti guardi attorno provando a immaginare gli strati di questa lunga storia. Tanto per cominciare sai che gli storici tendono a credere che nel periodo medievale qui furono quasi solo boschi. In realtà fu così per tutta la Toscana, ma in Val d’Orcia le trasformazioni successive furono abbastanza impressionanti. Il disboscamento fu veloce: bastò qualche secolo di scorrerie militari, di incuria nella manutenzione idrica e di pastorizia intensiva – pecore soprattutto, ma anche mucche – per impoverire e inselvatichire il terreno, che diventò un agglomerato confuso di calanchi e biancane, coperto da una vegetazione di soli arbusti. Tra il Sette e l’Ottocento qui tutto aveva i tratti grigi della morte: di un paesaggio lunare e spoglio. Una valle spoglia anche se comunque frequentata, perché era questa la zona di transito interno tra Firenze e Roma. Così, buona parte di tutti quegli Europei da ‘‘grand tour’’ che venivano in Italia alla ricerca dell’avventura, di una formazione completa o delle proprie radici, dovevano quasi inevitabilmente passare per questa valle desolata e deserta.

Difficile da immaginare che il luogo che oggi è l’immagine stessa della Toscana da cartolina, avesse simili tratti spettrali. Eppure è questa l’idea che trovi maggiormente interessante: l’idea che un giorno un paesaggio abbia potuto essere inventato, e con esso una concezione nuova di quei territori e del loro significato politico e sociale.

Sì perché un paesaggio non è mai solo una questione estetica: ti dice come vedi il mondo e, talvolta, pure come lo desideri. E tra sette e ottocento, l’idea di paesaggio si trasformò: accadde sulla spinta dello sguardo dei tanti viaggiatori del Gran Tour, sulla scorta del nuovo sguardo scientifico e oggettivo verso la natura, sulle impressioni di pittori e di scrittori che da un lato ricercavano la natura del mondo antico e dall’altro riproducevano ogni cosa con uno sguardo sempre più oggettivo. Così ti viene da pensare seriamente che bisognerebbe scriverla una storia di come dal nord Europa non solo giunse l’idea del pittoresco (quella è già stata abbondantemente studiata), ma di come a un certo punto si cominciò a idealizzare il sud, secondo una precisa (e inventata) idea di natura; e idealizzandolo si cominciò a narrarlo e a trasformarlo concretamente per farlo coincidere con i propri sogni. È in parte questa la storia di come tra Otto e Novecento furono inventati i luoghi di vacanza, tanto montani quanto marittimi, e di come in certi casi furono inventati e ricostruiti i paesaggi di territori interi. Come la Toscana per l’appunto.

 

Così questa sera sei nuovamente seduto ad ascoltare musica e ti sembra che tutto sia in tema con i tuoi pensieri. Perchè le grandi aspirazioni ottocentesche, quel bisogno di forzare la natura che fu anche soprattutto bisogno di dare un senso nuovo alla storia e alla politica, si capisce bene solo se si passa anche dalla musica. In fondo il romanticismo al suo meglio fu proprio questo: dissoluzione delle forme classiche precedenti e affermazione di una fantasia creatrice. Ed è al nord che lo si sente al meglio tutto questo. Lo scrisse perfettamente Kurt Tucholsky, un autore satirico tedesco di inizio Novecento: “A causa dell’inclemenza del tempo, la rivoluzione tedesca ebbe luogo in musica.” E spesso, quando ascolti la Terza sinfonia di Beethoven, ti torna in mente: dall’alto di quelle note è evidente che Tucholsky avesse ragione. Si era ai primissimi anni dell’Ottocento e Beethoven, giunto alla sua terza sinfonia, fece davvero la rivoluzione. Ad ascoltare certa sua musica precedente, per piano o da camera, si capisce che ci stava arrivando, come se vi fossero già forze immani che premevano per uscire e scatenarsi. Ma fu solo in quel momento che si decise, o riuscì, a far saltare gli schemi e l’armonia formale e stilistica. Difficile immaginare che effetto poté suscitare nei primi ascoltatori quella violenza sonora, loro che erano ancora abituati a sentir suonare per intero una linea melodica da un singolo strumento o da un gruppo tutto all’unisono. Sconvolgente è probabilmente la parola giusta. E Beethoven è all’inizio di una parabola a dir poco ricca.

Questa sera sei seduto all’aperto sotto un grande albero che ci protegge tutti dagli ultimi raggi di sole ancora caldo a quest’ora di tardo pomeriggio. La corte di case di mattoni tutt’attorno e il palco lì davanti a noi. Programma in tema con i tuoi pensieri: a parte un sempre doveroso Bach iniziale, il resto risuona delle note di Schubert e Schumann. Due modi parecchio diversi di essere romantici: il primo intimo e malinconico, il secondo irruento e tumultuoso. A te piace Schumann.

In particolare questa sera è il Quintetto con pianoforte in mi bemolle op. 44: una di quelle cose che gli innamorati di musica classica conoscono a menadito, pieno com’è di invenzioni musicali straordinarie. Robert Schumann lo compose nel 1842, dedicandolo alla moglie Clara, la strepitosa musicista che con i suoi concerti avrebbe segnato quell’epoca musicale. È il romanticismo al suo massimo grado in un susseguirsi di slanci improvvisi e di ripiegamenti dolcissimi. Quel tipo di musica dove il silenzio conta tanto quanto le note. Beh, adesso sei qui ed è tutto perfetto… se non fosse per le cicale: Schumann non lo hai mai ascoltato assieme all’accompagnamento delle cicale. Ed è strano: talvolta ne sei infastidito, a volte riesci a dimenticarle, a volte persino ti pare che siano intonate e a tempo. Poi, al terzo movimento, uno scherzo “Molto vivace”, succede qualcosa: le cicale improvvisamente… tacciono! Ed è un po’ come quando si spegne la luce in montagna e ti appaiono d’improvviso le stelle: ogni nota ha cominciato a brillare e a suonare come non aveva mai fatto nella tua testa. E tu ti dici che non sarai mai sufficientemente grato alle cicale e ai tuoi amici musicisti per quel momento di assoluta bellezza.

Terzo Movimento

È stata una donna a volerlo. Si chiamava Iris Margaret Origo ed era nata nel 1902 da un ricco filantropo americano e dall’erede di un Pari d’Irlanda. Così andò che a viaggire cominciò sin da bambina: Inghilterra, Irlanda, Stati Uniti e Italia. Sia chiaro non cose da poco: la madre acquistò Villa Medici a Fiesole, una delle più spettacolari ville fiorentine e divenne amica di Bernard Berenson, che viveva non molto lontano, in località I Tatti. Ed è da qui che ti piacerebbe ragionare: da quel legame che unì tanti intellettuali europei, in particolare inglesi, all’Italia, in particolare alla Toscana, per ragionare di come agli inizi del Novecento si misero a investire nei loro sogni in modo così forte e deciso da costruirseli davvero. E così facendo crearono l’Italia idealizzata dai Gran Tour e dal pittoresco.  Lo fece anche Iris, soprattutto dal momento in cui sposò Antonio Origo e assieme cercarono un luogo dove trasferirsi. Fu allora, era l’ottobre del 1923, che incontrarono la Val d’Orcia: “un altopiano nudo, spazzato dal vento”. Punto di partenza, la tenuta dove sei adesso, La Foce, una villa da rimettere tutta in sesto, così come l’intera azienda agricola: una tenuta di millequattrocento ettari e cinquantasette poderi. Che val la pena sottolinearlo perché è evidente da questa scala di grandezza che la Val d’Orcia così come la vedi l’hanno fatta loro. E ti dici ancora una volta che varrebbe davvero la pena prendere questa storia e allargarla un po’, giusto per ragionare meglio di come la costruzione del paesaggio italiano, delle vedute tipicamente “nazionali”, sia stata una storia globale (o almeno europea): una storia che per capirla e ricostruirla bene ha più senso andarsene in Inghilterra o cercare tra le carte dei pittori o dei ricchi collezionisti e mercanti europei. Ma soprattutto, pensi tra te, avrebbe pure ancor più senso in questi tempi di grande cambiamento aggiungere un tassello a questa storia ricordando come tutto questo non ebbe dei protagonisti solo maschi.

 

Che poi leggendo il programma troppo in fretta, avevi letto Schumann e avevi pensato Robert. Ovvio: anche tu non sfuggi alle facili generalizzazioni. Invece in mezzo, prima del Quintetto op. 44, c’era un pezzo di Clara non di Robert. Vedi? Ti dici? Funziona anche così la storia: cancella talvolta semplicemente anche solo dando per scontato.

E Clara non bisognerebbe proprio darla per scontata. Perchè Clara Josephine Wieck è stata forse la più grande pianista del suo tempo e pure una notevole compositrice. Poi certo ha sposato Robert e tute le volte che ti è capitato di leggere qualcosa di lei hai pensato come diamine abbia fatto a sposare quel giovane trasognato, squattrinato e malaticcio. Ma l’amore funziona così talvolta. Non smise mai di difendere il genio del marito anche davanti alle composizioni più ostiche e difficili per il pubblico. E forse dovette combattere non poco con le convenzioni che lei stessa aveva introiettato. Come quando scrisse, dopo la morte di Robert: “Una donna non deve desiderare di comporre; non ce n’è stata finora nessuna in grado di farlo. Debbo essere io la prima?” Una frase che sembra più un modo per convincersi. Così andò che per molto fu dimenticata. Tanto che ti senti pure in colpa adesso a leggere sul programma di questo brano e scoprire pure di non conoscerlo: romanza per violoncello solo…

Clara scrisse un solo concerto per pianoforte e orchestra, in La minore op. 7. Era il gennaio 1833, e lei aveva solo 13 anni: a quel tempo ne cavò un unico movimento; poi ampliò l’opera e aggiunse altri due movimenti. Lo terminò il 1° settembre 1835, dodici giorni prima del suo sedicesimo compleanno. Ci sono cose davvero notevoli in quella musica, soprattutto per quanto ti riguarda quel secondo movimento: una romanza che non ha niente a che vedere con gli usi orchestrali del periodo. Sì perché in quel momento di un concerto per piano, l’orchestra improvvisamente tace e rimangono da soli il piano e il violoncello; come se finalmente, in pace stessero lì a parlare assieme.

E il fatto che al violoncello stia suonando Antonio, che di Iris Origo è nipote, ti sembra dare più senso al tutto; e ti vien da pensare in quel momento, mentre il sole scende sull’orizzonte di una terra bellissima, che il volto migliore delle cose è proprio in quel dialogo continuo e leggero, che è mescolanza e trasformazione.

Alessandro Vanoli 2023

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